R.O.M. utopy

Il futuro della memoria, la memoria del futuro.

R.O.M. utopy
Client
Spazi Multipli
Year
2012
Program
graphic art
Status
idea

R.O.M. utopy

team: Davide Coluzzi DAZ architect, Spazi Multipli

(text: Antonio Pizzola Architect)
Rom è un’architettura viaggiante, un’utopia per la città del futuro che si stacca, liberandosi dalla gravità, dal rapporto con il suolo, quello che ha caratterizzato, come vincolo progettuale fondante, l’attività della costruzione dell’Uomo da sempre.

L’accostamento al Colosseo è esemplificativo e simbolico per una metropoli, quale Roma, che è cresciuta stratificandosi nei secoli, verticalmente nel procedere della Storia e orizzontalmente nella Geografia. Il rudere storico ne costituisce idealmente e metaforicamente il basamento, pur elevandosi su di esso senza violarne, in un polemico e virtuoso rispetto della preesistenza, alcuna parte.

ROM è un pezzo di città che libera il suolo, spingendosi oltre le utopie novecentesche del Razionalismo europeo che inaugurò la città verticale per liberare l’attacco a terra. Ricoperta da una superficie fotosensibile che rende energeticamente autosufficiente, ROM è un’architettura che si articola a livelli attorno a un vuoto centrale che accoglie i collegamenti. La corona circolare più esterna, nella quale si attestano i setti che ne costituiscono l’ossatura, contiene gas nobile nelle dovute proporzioni per tenerla sospesa e galleggiante nell’aria. Nel suo funzionamento prende spunto all’intuizione dei dirigibili degli inizi del 900, che pur abbandonata dalla ricerca negli anni successivi,  consente ancor oggi, soprattutto in ambito militare, il trasporto di mezzi di grandi dimensioni e carichi.

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Il futuro della memoria, la memoria del futuro.
Il nostro Paese ha un rapporto schizofrenico con la propria eredità, in tutti i settori del patrimonio culturale ma in modo particolare in architettura. Gli edifici storici e ancora più i resti archeologici, soprattutto i manufatti “minori”, disseminati nei centri storici cittadini, soffrono di abbandono, nonostante le declamatorie di tutela e la politica vincolistica di salvaguardia sempre più stringente. Ridotti spesso a ruderi in continuo e progressivo degrado, recintati e abbandonati, i manufatti storici sono diventati isole spartitraffico, ricettacolo di rifiuti, rifugio di randagi, colture di piante infestanti, mentre il complesso apparato di gestione e controllo si moltiplica, intersecando competenze, ruoli e vincoli sempre più kafkiani. I casi virtuosi, realizzati con la legge Ronchey, sono le rare eccezioni: sono gli edifici recuperati a funzioni diverse, musei, spazi espositivi e di servizio pubblico, solo raramente gestiti da privati, dai quali si riesce a ricavare risorse utili almeno per il mantenimento.
Il reale ostacolo alla salvaguardia, dicono gli esperti, sembra essere l’insufficienza di risorse pubbliche destinate al comparto, ma il grido di allarme diventa alibi quando nulla si fa o addirittura si ostacola la ricerca di risorse alternative.
Manca assolutamente una strategia complessiva, cosicché l’iniziativa è lasciata al singolo funzionario o amministratore che, piuttosto che assumersi la responsabilità di adottare decisioni difficili e impopolari, rischiando di esporsi ad accuse di peculato, lascia che le urgenze si accatastino nei polverosi archivi delle sovrintendenze. Siamo culturalmente e operativamente chiusi ad ogni ipotesi di recupero e riuso funzionale dei manufatti storici, perché qualsiasi ipotesi di rinnovo comporterebbe inevitabili interventi di adeguamento, ai quali siamo ostili per tabù più che per convinzione. Sappiamo bene infatti che l’unica possibilità di salvaguardia è ridare vita a pezzi di mura che non ci raccontano più nulla se non la nostra incapacità a leggere e a trasmettere la storia. Certo, il rischio della speculazione, soprattutto nella condizione italiana, è sempre attuale e concreta ma lo stato delle cose rivela come la politica dei vincoli che genera immobilismo sia assolutamente inadeguata sia ad arginare la speculazione, che ad evitare la rovina.

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I maggiori monumenti, come il Colosseo, che attraggono entrate consistenti all’erario (35 mln solo per i biglietti di ingresso), chiedono interventi conservativi continui (oggi il Colosseo necessita di 25 mln) che non si sa come soddisfare. I fondi ricavati vengono spalmati sulle emergenze e usati per tenere in piedi non il monumento che ha consentito l’introito, quanto piuttosto la macchina burocratico-amministrativa che li gestisce. Le economie di contorno che oggi si recuperano dal Colosseo come dalla valle dei Templi o dalla Villa di Adriano, si limitano, in assenza di un sistema organico di strutture di accoglienza, ai ricavi degli ambulanti semiabusivi che vendono a prezzi esorbitanti pessimi panini e bottigliette di acqua, o alle improvvisate guide mascherate da gladiatori romani che si fanno ritrarre a braccetto con i turisti, offrendo un’immagine squalificante del prodotto italiano al mondo. Siamo ancora ancorati alla vernacolare economia degli anni 50, della passeggiata con la carrozzella a cavallo o, nei casi più evoluti, di ingombranti e inquinanti pulmann da tour cittadino.
Invece la possibilità di sponsorizzazione da parte di aziende private e mecenati, che potrebbe attivare occasioni di sviluppo concreto se inserite in un serio programma di valorizzazione, viene considerata un’eresia dai puristi della conservazione e dell’immagine che si scandalizzano per la pubblicità stampata su un ponteggio, ma non si sentono né si vedono quando il problema è dare una risposta urgente al degrado che preannuncia la rovina. La Domus Aurea è stata dichiarata inagibile da anni ma, mentre cade a pezzi,  non andiamo oltre la denuncia. La questione esiziale, fuori dall’urgenza che consente, questa sì, speculazioni selvagge e operazioni di basso profilo (come si è dimostrato recentemente nella ricostruzione per il terremoto di L’Aquila) è quale futuro immaginiamo per la città storica. E conseguentemente quali misure, quali strategie, quali occasioni, prima ancora di quali limiti, si possono adottare per garantire che il patrimonio ereditato sia trasmesso ai posteri. Quali le modalità che consentano alle nuove funzioni, alle nuove irrinunciabili tecnologie (basti pensare all’approvvigionamento di energie alternative) di accostarsi ai manufatti storici.
La dimostrazione di quanto siamo paradossalmente impreparati a gestire l’emergenza, pur vivendo in un paese a rischio sismico certo, è stata la ricostruzione di L’Aquila. Aldilà degli interessi speculativi che hanno determinato la scelta di abbandonare la città storica per riprodurre nella periferia squallidi quartieri senza qualità, il cataclisma ci ha trovati impreparati ad operare scelte strategiche sul patrimonio storico, in gran parte diruto. Non esisteva e non esiste un piano di prevenzione adeguato, né una selezione fatta a monte, caso per caso, su quanto eventualmente sacrificare, perché di minore valore storico-artistico, e quanto assolutamente salvaguardare, e con quali mezzi. Dove intervenire per consolidare l’esistente e soprattutto come, e dove all’occorrenza ricostruire, modificare, demolire. Fra gli eccessi, di spinta fortemente speculativa da una parte, e di assoluto e rigido congelamento dell’esistente dall’altro, dichiarato e normato senza tenere assolutamente conto delle reali possibilità di salvaguardia, il risultato è stato sacrificare (oltre le vite umane) l’intero patrimonio storico, senza sapere a più di un anno dal terremoto se, quando e soprattutto come potremo mai riaverlo.
Nel frattempo lo sviluppo delle città italiane, fenomeno a sé nel panorama del vecchio continente, avanza seguendo prassi dettate dal mercato, dall’abusivismo e dall’aggiramento degli strumenti urbanistici. E questo nonostante il proliferare degli strumenti urbanistici a diversi livelli, dai piani paesistici ai piani particolareggiati, perchè le scelte vengono fatte in altri ambiti, prima o fuori da questi. Ma nessuno, politico, amministratore, funzionario, magistrato, vuole volersene rendere conto, ammettendo che la rigida e anacronistica politica del vincolo assoluto è solo funzionale all’aggiramento della norma da parte dei pochi privilegiati, “amici degli amici”, che sulle varianti  ad hoc costruiscono la loro fortuna.
La città storica e i monumenti dell’antichità non hanno, in queste condizioni, un posto nel futuro delle nostre città. E mai, come in questa fase storica, siamo incapaci di immaginare una proiezione dei luoghi della futura nostra convivenza. Non offriamo un futuro alla nostra storia e, contemporaneamente, abbiamo perso la memoria della nostra storica capacità di immaginare il futuro. Questa schizofrenia si risolve solo con un diverso atteggiamento culturale, una svolta riformatrice del pensiero.

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Occorre riappropriarsi dell’utopia.
L’utopia, (anche questo termine è diventato tabù), procede a meno del contesto reale ma proprio per questo, come è sempre avvenuto per tutti i grandi movimenti di pensiero della storia, traccia il percorso ideale dal quale ripartire per costruire il futuro. L’utopia presuppone e genera il dibattito e dal dibattito deriva la ricerca, nelle università, sui media, nei concorsi pubblici, negli studi professionali. Il tempo purtoppo non gioca in nostro favore perché, citando Kirkegaard, se non operiamo delle scelte, le scelte si compiranno nonostante noi.E le conseguenze, come si è dimostrato nell’attuale cultura dell’emergenza, sono disastrose.

RIFLESSIONI A MARGINE DI UN PROGETTO DI UTOPIA URBANA
L’evoluzione della convivenza umana nel mondo occidentale si legge secondo due assi: l’asse verticale (la storia), l’asse orizzontale (la geografia). La città contemporanea nell’anno 4.000 della storia dell’uomo sapiens, si è sovrapposta alle tracce delle città arcaiche e romano antiche, espandendosi sul territorio, occupandone mai come in passato la geografia. Questo ha comportato un uso del suolo e delle risorse che non possiamo più permetterci. D’altra parte si è assistito ad un profondo mutamento del costume: la città moderna (1000/1900 dc) si è sviluppata contaminando i resti del passato, con risultati a volte pregevoli (giustapposizione di stili, segni e di tessuti urbani diversi), a volte disastrosi (distruzione di interi complessi e tessuti preesistenti).

Dal 1900 in poi si è sancito il valore della testimonianza storica come principio imprescindibile, assurto a simbolo di civiltà, libro aperto in cui rileggere la storia. Ma paradossalmente, invece di essere garanzia di salvaguardia, quest’affermazione di principio è diventato un tabù che ha mortificato l’energia creativa, congelando in un presente senza carattere e senza storia le rovine ereditate dal passato. Ha portato di fatto all’immobilismo, al degrado, all’abbandono del patrimonio storico, offrendo il fianco agli speculatori che hanno avuto terreno libero per aggirare le regole. Nel frattempo la tecnologia ha fatto passi da gigante, rispetto al passato, ridotto le distanze, annullato il radicamento al suolo, moltiplicato gli scambi, reso anacronistici le appartenenze ad un luogo fisico specifico. Ma la città non ne ha tratto beneficio. L’incessante sviluppo orizzontale ha di fatto saturato il suolo, costretto gli abitanti alla mobilità continua, con uno consumo di risorse primarie diventato insopportabile per l’uomo e per la natura. Eppure già oggi la tecnologia ci consente di staccarci dall’ingombrante vincolo della gravità e dal radicamento al suolo e un luogo specifico. La città del futuro parte da queste considerazioni. Deve perdere molte delle caratteristiche negative di chi l’ha preceduta e deve riacquistare il valore del patrimonio storico come componente viva della sua stessa conformazione, del suo passato.Deve far coincidere in uno stesso sistema, residenza, mobilità, riduzione di consumo, autonomia  gestionale, nell’approviggionamento di risorse e nella gestione degli scarti.
La cellula base (definita ROM) è microcosmo autosufficiente, mobile, galleggiante nei fluidi, senza fissa dimora, senza ancoraggio fisso al suolo. Il radicamento ad un luogo specifico si concretizza esclusivamente come appartenenza ad un passato e ad una civiltà, dalla quale si proviene. Ma quel passato deve poter raccontare la sua storia. Il disegno della città del futuro non può prescindere dal recupero, dal riuso e dalla rivitalizzazione del suo stesso patrimonio storico, pena la perdità di identità e l’appiattimento culturale. Le tracce del passato, contaminate dai segni del futuro, diventano i totem della civiltà, i simboli di una storia condivisa dalla quale si costruisce la convivenza futura.
(AUTORE: Antonio Pizzola architect)


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